1943
La Battaglia di Gela
foto 1940
 
Vai a pagina 2
 

La Battaglia di Gela

Nel luglio 1943 l'Italia si trova a difendere il proprio territorio. Gli Anglo-Americani, preceduti da lanci di paracadutisti, sbarcano in più punti della Sicilia. La nostra Sicilia è difesa da poche forze rispetto a quelle Anglo-Americane. Lo sbarco viene anticipato da paracadutisti che non ottengono quanto previsto dagli stati maggiori americani perché molti lanci mancano il bersaglio e quindi si disperdono nel territorio. Questo però favorisce gli alleati, perché i difensori non riescono ad individuare i precisi obiettivi dell'attacco. Dopo la mezzanotte, alle ore 2,45 del 10 luglio iniziano gli sbarchi a Gela. Il golfo viene invaso da una straordinaria forza navale mai vista prima. Da questa flotta sbarca la colonna americana "Dime", composta dalla 1° divisione fanteria (7 battaglioni e reparti d'appoggio) e da 2 battaglioni rangers.

La resistenza italiana altrove è travolta, ma non a Gela dove sul litorale si scatena una furiosa battaglia, dopo non pochi assalti infruttuosi e con gravissime perdite il generale Patton da l'ordine di reimbarco alle sue truppe. Riordinate le truppe, appoggiate dall'artiglieria navale e dalla flotta aerea riescono ad entrare a Gela alle ore 8 del 10 luglio, spingendosi poi verso l'interno dove occupano diverse posizioni a protezione della città. Mancano tuttavia di parte dell'artiglieria e dei carri, che si trovavano su una nave affondata in rada da un attacco aereo tedesco.

I comandi italiani, avuta notizia dello sbarco nella zona di Gela, ordinano un contrattacco delle unità di stanza a Niscemi: il gruppo mobile "E" ed un battaglione della divisione "Livorno", e la divisione "H. Goering". Nel giorno 10 i contrattacchi italiani sono respinti e le colonne tedesche, stazionate più indietro, non sono in grado di aiutare i reparti italiani. Si è perciò deciso di organizzare per le ore 6 del giorno 11 un contrattacco in forze condotto dalle divisioni "Livorno” e “Goering ". I cannoneggiamenti e le incursioni aeree alleate fanno ritardare la controffensiva delle unità così che Italiani e Tedeschi non attaccano simultaneamente né con tutte le forze. L'attacco italiano procede: le prime posizioni americane, sotto l'urto della “Livorno” sono travolte e gli americani, pur combattendo tenacemente, arretrano su tutto il perimetro. Gli attaccanti sono però sono sotto il tiro del cannoneggiamento navale e subiscono forti perdite.

Nella mattinata il denso fumo degli incendi rende difficile distinguere i bersagli dalle navi, che praticamente cessano il fuoco, e le truppe americane di terra ne approfittano per ritirarsi dentro l'abitato di Gela. Proprio in quel momento di massima crisi della testa di ponte americana giungono mezzi corazzati di rinforzo sia da Licata che da Scoglitti ed arriva l'appoggio aereo tattico. La maggior parte delle colonne italiane devono interrompere l'attacco e passare alla difensiva per non essere tagliate fuori; duramente provate, nel pomeriggio cominciano a ritirarsi per raggiungere le basi di partenza, nuovamente contrastate dal tiro navale. Due battaglioni di italiani, decimati, non riescono a sganciarsi e sono catturati. Durante la notte un altro battaglione italiano “la Livorno”, che era riuscito a sganciarsi e raggiungere monte Castelluccio, è agganciato dagli americani. Il reparto si difende strenuamente sino al successivo mattino, quando i superstiti soverchiati da ingenti forze nemiche, si arrendono.

Il fallimento del contrattacco italiano su Gela fu dovuto soprattutto all'imprevista efficacia del tiro navale, che sopperì alla iniziale mancanza in campo americano di appoggio aereo tattico, mezzi corrazzati e cannoni anticarro.

 

 

Rievocazioni

Nel luglio 1963 la nostra tv di stato ha trasmesso una rievocazione dello sbarco degli alleati a Gela, che per il dovere della verità storica possiamo solo definire incompleta.

Il documentario si avvaleva solo di spezzoni video e foto realizzate dalle truppe alleate oramai padroni della città, dopo aver regalato sigarette, cioccolato e quant'altro, immortalavano nelle macchine da presa un momento di serenità in cui si vedevano gelesi sorridenti assieme ai soldati americani.
Non possiamo negare che tutto questo sia veramente accaduto, ma da qui a far capire che le truppe americane siano entrate in città senza colpo ferire, anzi acclamati dalla gente, significa mistificare la realtà, significa deformare il momento storico dello sbarco a Gela, che invece ha avuto dei momenti drammatici per tutti i contendenti.

L'onorevole Guerrieri, in una lettera di protesta indirizzata al presidente della Tv Quaroni, lamentava la scarsa sensibilità della Tv di stato nel disertare le commemorazioni dello sbarco alleato a Gela, il quale, il 29 settembre 1966, rispondeva di rammaricarsi per questa mancanza di sensibilità da parte dell'Ente perché ciò che avveniva a Gela nel corso della commemorazione era sicuramente un dato di fatto storico altamente educativo per i nostri giovani e un tassello della verità militare, a cui parteciparono i gloriosi nostri sodati.

Infatti non possiamo dimenticare chi, dopo aver sparato l'ultima cartuccia, o circondato da innumerevoli forze nemiche sia stato fatto prigioniero e trascinato in fila attraverso le vie cittadine al campo di raccolta tra due fila di cittadini piangenti che facevano da ala al loro passaggio, stremati dal combattimento, arsi dalla sete, a cui non potevano offrire neanche un sorso d'acqua, un pezzo di pane sottratto ai loro figli, un abbraccio come solo una mamma sa dare in queste condizioni agli altri suoi figli con le stellette; per non parlare poi del dolore causato dalla perdita delle nostre forze sia sul litorale che nella pianura. Per ricordare il sacrificio di tutti, proponiamo, ai nostri giovani, tre episodi: il sacrificio del tenente Navari che, continuò a far fuoco, nei pressi della Matrice, dal suo fragile carro armato, destando l'ammirazione del vicino comando Americano, finché non si accasciò sulle lamiere contorte e fumanti del suo mezzo al quale si era chiesto l'impossibile. Del maggiore d'Artiglieria Artigiani che perdette la vita in uno slancio di fraterna collaborazione con la Fanteria e quello del caporale maggiore Pellegrini che si difese eroicamente nel fortino di Porta Marina, riuscendo da solo quasi a far fallire lo sbarco in quel tratto di mare, finché non venne pugnalato alle spalle da un militare di colore.

Questi e altri episodi la nostra Tv avrebbe, in quel servizio, dovuto commentare e valorizzare solo se prima si fosse documentata.

Infine riportiamo un commento del generale Eisenhower, comandante in capo delle forze anglo-americane che combatterono nello sbarco: “Se queste truppe non sono vittoriose su un qualunque campo di battaglia, è certamente perché attaccate da forze numericamente troppo superiore”.

Dal libro La battaglia di Gela di Nunzio Vicino, condensato da Salvatore Ventura

 

 
Il Tenente NAVARI Il Capor. magg. Pellegrini
 
Testimonianze
 

Dal volume IX della “Storia delle operazioni Navali U.S. dell'ammiraglio Morison:
“… in realtà gli alleati avevano chiuso in una muraglia di navi un buon terzo della Sicilia. Nessuna forza del mondo avrebbe potuto impedire loro di stabilirvi le loro teste di ponte”.

A Gela un reparto di marines fu annientato “dal fuoco incrociato di due postazioni di mitragliatrici”; un altro reparto fu “costretto a battersi sulla costa quattro ore, subendo molte perdite, causate dal fuoco di mitragliere e di cannoni”.

“Il mattino del 10 luglio l'intero peso del contrattacco in questo settore era lasciato sulle spalle del gruppo mobile italiano di stanza a Niscemi” mentre il mattino dell11 luglio, il peso della lotta fu sostenuto per intero dalla sola divisione “Livorno".

DA “STAR AND STRIPES” del 21 Agosto 1943.

“… al largo della costa di Gela l'ora H venne alle ore 2,45 e subito vedemmo le prime fumate dei grossi calibri costieri… Non ci potemmo avvicinare di più perché numerosi pezzi di artiglieria nemica avevano seminato il mare di proiettili intorno a noi. La stessa città di Gela è circondata da fitto fumo che nasconde tutta la zona dove è in corso il combattimento. Le nostre navi da guerra hanno navigato in perfetto ordine su e giù lungo la costa, lanciando proiettili da otto pollici con effetto terrificante. Hanno concentrato la loro attenzione sulle batterie nemiche”.

Da un articolo del Comandante Anthony Kimmins, pubblicato ne “Il Mese” dell'ottobre 1943.

L'avversario confuso dalla massa di imbarcazioni, sparava in tutte le direzioni senza regola; le pallottole traccianti fischiavano da ogni parte, rivelando la posizione delle batterie e dei fortini. I Cacciatorpedinieri cominciavano a controbatterli con le loro artiglierie… Al sorgere dell'alba la costa era coperta da una lunga cortina di fumo e, col crescere della luce, apparve più e più distinta una delle scene più strabilianti ch'io abbia mai visto… da una parte e dall'altra non si vedevano che navi, navi, navi… una sterminata flotta di duemila navi”.

Montgomery :
“Il primo importante contrattacco nemico venne sferrato nel settore americano… nella direzione di Gela”.

Eisenhower :
”La valorosa azione della I° divisione, appoggiata saldamente da una formazione aviotrasportata e con l'aiuto delle artiglierie della marina, respinse il contrattacco dopo alcune ore di aspro ed incerto combattimento”.

Stato Maggiore canadese :
“L'11 luglio la situazione diventa critica durata un certo tempo nei dintorni di Gela, centro della linea americana…”.

Butcher :
“Patton ci ha mostrato sulla carta che l'invasione americana si sviluppa secondo i piani in tutti i settori, tranne in quello di Gela dove la I° divisione ha incontrato una forte resistenza nemica”.

I quotidiani The Military and Civil gazette e the Statesman di Nuova Delhi del 12 luglio 1943 pubblicavano la notizia secondo la quale il Comando americano, in seguito ai furiosi contrattacchi delle truppe italiane, ammainava la bandiera e dava l'ordine di reimbarco delle truppe sbarcate a Gela..

Dopo la mezzanotte la Piazza del Duomo fu teatro di una sanguinosa lotta in cui si distinsero egregiamente i Carabinieri, ai quali, nel frattempo, si erano uniti alcuni giovani gelesi contro gruppi di marines e paracadutisti.

La lotta durò due ore circa. I Carabinieri si difesero strenuamente, ma furono sopraffatti quando, esaurite le munizioni, vennero circondati da altri paracadutisti, accorsi dalla parte della vicina Chiesa del Rosario

Ricordiamo: Ferdinando Incardona, Francesco Zafarana, Rosario Cacciatore, Crocifisso Tallarita.

Dal libro "La battaglia di Gela" di Nunzio Vicino

 
UN LIBRO DELL'ON AUGELLO SVELA LE STRAGI DELLO SBARCO IN SICILIA DEGLI ALLEATI
Giovedì, 30 Aprile 2009

 

IL TEMPO di ROMA del 30 aprile 2009


http://www.congedatifolgore.com/news/fotonews/uccidi.italiani.jpg



Seconda guerra mondiale

I segreti di quello
sbarco maledetto

Nel libro di Andrea Augello sono dettagliatamente descritti i crimini di guerra commessi dagli Alleati in Sicilia nel periodo dello sbarco. Testimonianze e descrizioni importanti di una realtà tragica che ci tocca da vicino.


«Contro i 1.800 moderni cannoni nemici, schieravamo 500 bocche da fuoco, per due terzi residuati della Prima guerra mondiale. Contro i 600 carri armati anglo-americani si contano circa 155 carri tedeschi e un'ottantina di carri leggeri italiani, 50 dei quali Renault 35».

Eppure il giovane tenente dei carristi Angelo Navari sul suo Renault 35, una scatola di latta con i cingoli, dalle foto in bianco e nero sembra sorridere.

Alle 2 nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 in Sicilia gli Alleati hanno dato il via alla più imponente operazione di sbarco che si sia mia vista nella storia fino a quel momento, sulla spiaggia tra Licata e Gela e tra Pachino e Siracusa. Alle 8 del 10 luglio il tenente Angelo Navari alla testa di 12 carri Renault contrattacca. Punta verso l'abitato di Gela, affiancato solo da una compagnia di bersaglieri. Vengono massacrati dal diluvio di fuoco che arriva dal mare. Restano solo due carri italiani. Il tenente Navari avanza da solo.

Travolge le difese americane fuori dal paese, lungo la ferrovia. I ranger se lo vedono passare davanti all'ex Hotel Trinacria, sembra invulnerabile. Semina il vuoto, è a 300 metri dalla spiaggia. Ha tagliato in due la testa da sbarco della più potente armata. Perde il pilota. Alla fine un colpo di bazooka blocca i cingoli. Angelo Navari esce dalla torretta con la pistola in pugno. Un proiettile lo centra in fronte. Ma il suo sacrificio è servito a dimostrare quanto il dispositivo americano sia fragile, nonostante che dalla notte prima, sotto un cielo di pece, il mare sia letteralmente ricoperto di cannoniere e mezzi da sbarco, a ondate piovano bombe dalle fortezze volanti. Strano libro quello scritto da Andrea Augello, senatore del Pdl. Un libro che ha il merito di far rivivere dall'oblio questi eroi non per caso.

E dove i liberatori sparano sui civili, massacrano i prigionieri.

"Uccidi gli italiani" è edito da Mursia, è stato presentato all'auditorium dell'Ara Pacis; e ha una postfazione, preziosa, scritta da Anna Finocchiaro che al Senato siede nel versante opposto, capogruppo del Pd. Il titolo viene dalla parola d'ordine dei parà britannici che presero parte allo sbarco, in codice "operazione Husky", quando gli Alleati non avevano ancora deciso - osserva Andrea Augello - di descrivere la campagna di Sicilia come una "missione umanitaria".

Soprattutto il saggio, che spesso ha il ritmo incalzante di una sceneggiatura cinematografica, ma ricco di documentazione e di testimonianze, ha un altro merito.

La strage di Biscari (furono fucilati oltre 70 soldati italiani dopo che si erano arresi) - rivelata qualche anno fa da Gianluca di Feo del Corriere della Sera, e probabilmente non l'unico crimine di guerra americano in Sicilia - resta sullo sfondo.

La ricostruzione di Andrea Augello rovescia la vulgata secondo la quale sull'isola le nostre forze armate si sciolsero come burro, un anticipo dell'8 settembre.

E invece gli italiani combatterono una battaglia feroce. Durissima.

Tra gli errori incredibili - semmai - dei tedeschi e la violenza spesso brutale delle truppe alleate. Si combatté per giorni intorno a Gela, nel centro del paese: dalla piazza del Duomo fu prima tolta metà dal mucchio di corpi, quella dei soldati americani uccisi, e poi i fotoreporter di Life fotografarono solo i cadaveri degli italiani. Per almeno due volte gli Alleati rischiarono, nonostante l'enorme superiorità di mezzi, di essere ributtati in mare da quell'esercito di "straccioni".

"È questa la Storia che restituisce alla città di Gela l'identità di tanti cittadini valorosi che non trovarono neppure l'onore di una sepoltura ufficiale" scrive Anna Finocchiaro. Dal 10 al 12 luglio caddero sul fronte di Gela 3.300 soldati italiani (molti i ragazzi della Divisione Livorno). Si conosce il luogo di sepoltura per 600 di loro: all'appello ne mancano 2.700. Giacciono sotto i campi, nelle fosse comuni. Oltre che si faccia chiarezza sui crimini di guerra, che si restituiscano le medaglie "rubate" a chi si comportò da eroe, l'augurio di Andrea Augello è che nasca un "luogo della memoria dello sbarco" riconoscendo finalmente "ai combattenti, italiani, tedeschi, americani, nulla di meno dei loro meriti e dei loro limiti in momento spaventoso" in cui migliaia di giovani si misurarono con l'orrore della guerra.

Fonte: congedatifolgore.com

 
Giugno 1943 - Umberto di Savoia visita il campo di aviazione di Ponte Olivo
 
Il Re V. Emanuele III a Gela, prima dello sbarco americano
 
Si studia il piano di sbarco
 
Illustrazione del luogo dello sbarco
Cartina dello sbarco americano in Sicilia
 
Paracadutisti americani in viaggio verso le campagne gelesi
 
Paracadutisti americani nell'entroterra gelese
 
Un fortino presso il Castelluccio
 
Le navi si avvicinano al golfo di Gela
 
Navi siluranti italiane contrastano la flotta americana
 
Navi americane viste dal'orto Pasqualello
 
Le navi entrano nel golfo di Gela
 
Una nave attacca la costa gelese
 
Le navi americane vengono bombardate dalla difesa costiera
 
Esplosione della nave Robert Rowan provocata da una bomba di aereo tedesco
 
Esplosione della nave Robert Rowan provocata da una bomba di aereo tedesco
 
L'esplosione vista da Gela
 
La nave Robert Rowan in fiamme
 
Una nave in fiamme
 
Una nave in fiamme
 
La nave Robert Rowan cola a picco
 
Gela bombardata dalle navi americane
 
Le navi in prossimità della costa gelese
 
Le navi in prossimità della costa gelese
 
I soldati americani cominciano a sbarcare
 
Si continua a sbarcare
 
Altri sbarchi
 
Glia amercani prendono terra sottoil fuoco delle nostre artiglierie
 
Si cominciano a sbarcare i mezzi blindati
 
Mezzo blindato verso la spiaggia
 
I primi mezzi pesanti sbarcati
 
Si sbarca di tutto
 
Gli americani piantano la loro bandiera sulla spiaggia gelese
 
Si sbarcano i mezzi di trasporto
 
Soldati italiani prigionieri degli americani
 
Continuano gli sbarchi
 
Continuano gli sbarchi
 
Arrivano altre navi
 
Si sbarcano le munizioni
 
Lo sbarco visto da lontano
 
Si rinforzano le linee con altri sbarchi
 
Un sodato americano a guardia di un commilitone ucciso
 
Gela sotto i bombardamenti
 
La piana di Gela sotto i bombardamenti
 
La piana di Gela sotto i bombardamenti
 
Le famiglie abbandonano le case
 
La popolazione scappa con ogni mezzo
 
Si colpiscono i nostri carri armati con i bazuka
 
Ranger americano accanto ad un carro R-35 distrutto
 
Patton sulla spiaggia di Gela
 
Il generale Patton sulla spiaggia di Gela
 
Il gen. Patton si congratula col Col. O. Wlilliam
 
La gente abbandona le case
 
Un carro armato italiano "Renault" distrutto
 
La gente abbandona le case
 
Soldati americani vicino al corpo di un sergente italiano ucciso
 
Un cannoncino sottratto ai militari italiani
 
Soldati americani in Piazza
 
Carri armati nel centro di Gela
 
Soldati americani a terra per una incursione aerea tedesca
 
Prigionieri italiani nel Corso Vittorio Emenuele I
 
Prigionieri italiani nel Corso Vittorio Emenuele I
 
Prigionieri italiani in Via G. Cascino
 
Prigionieri italiani nel campo di concentramento provvisorio in Contrada Fontanelle sotto l'attuale Municipio
 
Soldati italiani prigionieri degli americani imbarcati per l'Africa
 
Rilevamento dell'entroterra gelese
 
Soldati americani nelle campagne gelesi
 
Un carro armato americano nel corso V. E. nei pressi della villa
 
Soldati americani nella piana di Gela
 
Soldati americani nella piana di Gela
 
Gli americani recuperano i loro morti
 
Casse di medicine pronte per essere sbarcate
 
Gela occupata dagli americani
 
Soldati americani smantellano i simboli dell'apparato italiano
 
Gela occupata dagli americani
 
Gela occupata dagli americani
 
Gela occupata dagli americani
 
Piazza Umberto I° presidiata dagli americani
 
Gela occupata dagli americani
 
Gruppo di Jeep presso il comando
 
Soldato nei pressi del comando
 
Gela occupata dagli americani
 
Soldati americani entrano nel bosco Littorio
 
Soldati americani accampati nel boschetto Littorio
 
Soldati americani accampati nel boschetto Littorio
 
Soldati americani dissetati col vino gelese
 
Civili italiani - I fratelli Cassero colpiti a morte
 
Gela sotto i bombardamenti
 
Incrocio - Via Cairoli con via Marconi - Un palazzo colpito da una bomba d'aereo
 
Macerie in città
 
Una donna tra le macerie
 
Un carretto che trasporta un ferito
 
Un carretto che trasporta dei feritiun ferito
 
Militari americani e civili gelesi in una foto ricordo
 
Donne e bambini discutono con i soldati americani
 
Il tenente Gallo tra i suoi parenti
 
Il tenente Joe Gallo incontra la nonna subito dopo lo sbarco
 
Il cimitero militare presso Ponte Olivo
 
Il cimitero di guerra di Ponte Olivo
Nella battaglia di Gela le perdite americane ammontarono complessivamente a 10.000 uomini come ebbe a confermare il maggiore statunitense, addetto al recupero delle salme.
Sepolti al cimitero militare di  Ponte Olivo, 3.090 soldati americani tra cui due donne tenenti e due crocerossine
Militari tedeschi: 500
Militari italiani: 3.350
 
Una mamma al cimitero di guerra di Ponte Olivo
 
Il fortino del Castelluccio
 
Il fortino attaccato al Castelluccio
 
Cippo in contrada Castelluccio in ricordo della battaglia di Gela
 

La stele di Monte Castelluccio

Su Monte Castelluccio, che domina la Piana di Gela dove il III Battaglione del 34° Reggimento Fanteria "Livorno" partì per l'attacco, ho innalzato un Monumento ai miei morti. Ai piedi di esso ho posto una Lampada Votiva sempre accesa, che io solo vedo, come io vedo il monumento. Questa lampada è il mio cuore. Io non potrò mai spegnerla finchè sarò in vita, perchè io soltanto so quanto grande e quanto glorioso sia stato il loro sacrificio
Dante Ugo Leonardi

 

L'Aeronautica a Gela

 
Macchi C. 202 schierati sul campo di aviazione di Gela, nel 1943
 
Il colonello Enrico Pezzi durante una sosta all'aeroporto di Ponte Olivo, per una ricognizione fotografica della zona di guerra - 11- 07- 1940
 

Ennio Tarantola con Ferruccio Vignoli, Gela, 1942

 
Ancora Ennio Tarantola, di fronte al suo C.202
 

Duilio Fanali, Comandante del 155° Gruppo CT, 51° Stormo, si arrampica nell'abitacolo del suo Mc. 202: sono visibili gli indispensabili paracadute Salvador ed il giubbetto salvagente. La foto lo ritrae all'aeroporto di Gela, prima di una missione su Malta 

 

Sottotenente Pilota Beniamino Spadaro, di fronte al Macchi C.202 151-5 Gela, Luglio 1942

 

Maresciallo Pasquale Bartolucci, di fronte al Macchi C.202 360-5, della 360° Squadriglia, 20° Gruppo, 51° Stormo Gela, Ottobre 1942

 

Pietro Bianchi coltivava un ottimo rapporto di amicizia con Ennio Tarantola. Qui li vediamo insieme, davanti al Macchi C.202, di Tarantola, Gela 1942

 

Il Cap. Pilota Furio Niclot Doglio M.O.V.M. (Torino, 24 Aprile 1908 - Malta, 27 Luglio 1943), Comandante 151a Squadriglia, 20° Gruppo, 51° Stormo, fotografato a Gela, nel Luglio 1942, davanti al suo Macchi C.202 151-1. Notare il guidoncino a forma di V che identificava il Comandante di Squadriglia

 
Il Capitano Ferruccio Serafini, Medaglia d'Oro al valor Militare, abbattuto ed ucciso il 22 Luglio 1943. A lui è oggi intitolato il 51° Stormo
 
Presidio della Marina americana dopo la guerra
 
La spola con le navi
 
Ritorno - Sullo sfondo l'edificio dell'allora Dogana adibita a caserma per la marina americana
 
La spiaggia di Gela
 
E' l'ora del rangio
 
Presidio della marina americana - Infermeria
 
Protezione del presidio
 
La guardia
 
Il magazzino
 
Arriva la posta
 
L'infermeria
 
Marinai in libetrtà
 
Foto ricordo
 

Ricordi

 

Seconda guerra mondiale

Soldati fuori caserma - Il seconda da sinistra era d'Angeli Emanuele - L'ultimo a destra Mendolia, tutti e due di Gela

 
La battaglia vissuta da:
 

Giocolano Francesco

Nato - il 08/01/1926
Morto - il 23/01/2013

- Il 9 luglio, verso le ore 20,30, dal mio quartiere Mulino a vento – Ospizio marino  ci ordinarono di abbandonare le case. Questa fuga inaspettata fu per noi come un sogno. Il quartiere era ben attrezzato di postazione munite di mitragliatrici e cannoncini. Verso le ore 0,30 del 10 luglio scoppiò la polveriera e saltò il pontile. Subito dopo incominciarono a farsi sentire gli spari, si vedevano nel cielo strisce di luce, la campagna bruciava, sulla spiaggia mettevano piede gli alleati, noi eravamo pieni di paura. Con altre famiglie, per lo più conoscenti, cercammo riparo presso una casetta che dava le spalle al mare e da dove si vedeva la Piana. La zona era allora tutta coltivata ad ortaggi. Ci riunimmo qui tutte le famiglie: Burgio,  Missud, Vella, Privato Giuseppe, Granvillano Francesco, Izzia Michele, Di Noto ed ancora altre di cui non ricordo il nome.
Dovendomi io recare a casa a prendere un po’ di pane e del vino, uscii in compagnia di Privato Giuseppe il quale voleva andare a vedere la casa della sorella; ma arrivato costui sul Corso fu colpito alle gambe dagli americani; si sparava dappertutto per la città.
Al Calvario ed a Porta Marina un sergente ed un caporale opponevano una accanita resistenza agli americani che sbarcavano, facendo strage con le mitragliatrici.
Il caporale di Porta Marina  (Cesare Pellegrini) sparava senza preoccuparsi, perché sapeva che i suoi compagni erano ai suoi fianchi nella postazione; eppure è stato il contrario, in quanto i suoi sono fuggiti lasciandolo solo, mentre seduto sparava senza voltarsi. Gli americani osservando che il fuoco si vedeva soltanto da quella parte, hanno aggirato la postazione e lo hanno pugnalato alla schiena.
A casa mia trovai il compare di mio padre Burgio Salvatore con la moglie e i figli che erano tutti piccoli, e lo informai che noi eravamo ricoverati nella casetta che faceva da stalla, di proprietà di Izzia Rosario.
Appena uscii per raggiungere i miei, il Burgio mi chiamò e mi disse che sarebbe venuto anche lui con la famiglia, certo di trovare posto tra gli altri. Era il destino che lo chiamava. Siamo andati assieme   in quella casa, dove c’erano pure un mulo ed un asino. La porta d’ingresso di questa casa guardava la Piana proprio di rimpetto allo stradale che porta a Ponte Olivo. Eravamo molte famiglie, tutte strette, e non ci si poteva muovere. Sentivamo colpi di cannoncini, di mitraglia, ci stringevamo l’uno accanto all’altro per la paura.
L’alba del 10 luglio 1943 cominciava a scadere, la valanga di fuoco cominciò a precipitare acceleratamene, e cannonate della Marina americana incominciarono a cadere su tutta la Piana e sul battaglione di bersaglieri che scendevano da Caltagirone e da Niscemi, i quali sono stati tutti massacrati. Noi abbiamo visto questi bersaglieri prima che venissero colpiti, e dopo mentre morivano sotto il bombardamento; in ogni metro della Piana scoppiavano granate. Io vedevo tutto dalla casa nella quale mi trovavo. I bersaglieri procedevano su due file, si chinavano, spingevano cannoncini, azionavano mitraglie.
L’ultimo proiettile che ho visto con i miei occhi scoppiare prima di essere ferito e stato quello caduto a 300 metri circa distante dalla linea ferrata Gela-Vittoria, dopo il passaggio a livello, mentre alcuni bersaglieri avanzavano verso Gela, sulla strada nazionale S.S. 117 bis. Questi bersaglieri camminavano uno accanto all’altro, sono stati colpiti in pieno e sono saltati in aria.
Io vedevo tutto questo macello, mi sono messo a piangere; noi non ci accorgemmo che gli americani li avevamo sopra i tetti delle case.
Intanto un mio compagno di lavoro Missud Ignazio che aveva passato la notte assieme a me nella mangiatoia, standocene con le gambe piegate, sentì il bisogno di sgranchirsi. Questa buonanima scende dalla mangiatoia, lamentandosi per i crampi alle gambe, alza gli occhi, vede sopra un piccolo ripostiglio un barile di 40 litri, vuoto e chiede al padrone di casa se lo poteva prendere per sedersi. Avuto il consenso, lo prende, lo mette a terra accanto alla mangiatoia, vi si siede ed invita anche me. Allora  si avvicina il compare di mio padre Burgio, e mi prega di stringere un po’ per fare poggiare una anca pure a lui. Io ero seduto tra i due con le mani sulle spalle del Burgio.
Non passarono 10 minuti che la casetta  fu colpita in pieno nel centro del tetto, facendo un macello di noi. Io avevo 17 anni allora, gli amici che erano seduti con me sul barile morirono subito tutti e due, perchè colpiti alla testa; io fui colpito al petto, avevo una grande ferita e caddi a terra privo di sensi; l’asino colpito pure a morte, cadde sopra le mie gambe. In seguito a quel spaventoso colpo, chi era rimasto illeso fuggì, lo stesso fecero i feriti leggeri.
Siamo rimasti i morti e i feriti gravi che eravamo in tre: una donna, Privato Vincenza, sposa di Granvillano Francesco, la signorina Vella Gina di anni 17 ed io. I familiari dei morti e dei feriti si preoccupavano di aiutare i propri cari, io avevo un morto sopra di me, ero tutto pieno di sangue mio e di quello dei morti; a mio padre che, prima di fuggire, mi cercava chiamandomi non potevo rispondere; ero ormai ritenuto morto. Tuttavia mio padre si fece coraggio, torno nella casa colpita, mi cercò di nuovo, ma, a causa di quel macello, non mi vide.
I miei amici morti erano sopra di me; ebbe terrore nel vedere le persone morte con le quali aveva chiacchierato un momento prima. Spostando alcuni cadaveri finalmente mi vide con la grande ferita, nella quale poteva entrare una mano larga; io non mi muovevo. Per mia fortuna il cuore non fu toccato, (vi era rimasto come un velo di uovo) e continuava a battere. Mio padre credendomi morto, perse il coraggio, uscì e si mise a piangere dietro una porta. Intanto un mio fratellastro Tinnirello Giuseppe era stato ferito alla spalla destra. Sua mamma, presa una bottiglia di vino, mentre gli medicava la ferita con il vino preso presso l’abitazione di un conoscente, si affacciò fuori per chiamare mio padre, lo vide che piangeva dietro la porta e gli domandò: “Perché piangi?”. “”Perché è morto mio figlio Francesco!” Ed essa di nuovo: “Perché non vai a prenderlo?”. “Non ho la forza, ne il coraggio!”.
La mia matrigna si fa coraggio e con la bottiglia di vino in mano entra nella casa. Vede tutti quei morti e non si perde d’animo, io ero di fronte con la faccia in aria e mi butta il vino sulla grande ferita. Appena il vino toccò la ferita, io lo sentii e mi mossi: “Santo, tuo figlio è vivo, vai a prenderlo”.
Così il mio povero padre viene a prendermi, non aveva dove toccarmi, perché avevo cinque ferite, riesce a portarmi a casa e va in cerca di aiuto.
Il fuoco si era scatenato come un inferno, ed aumentava man mano che il giorno si faceva più chiaro. Improvvisamente dei militari americani entrarono nella nostra casa con le armi puntate, ma accortisi di noi feriti, ci fanno le prime medicazioni e con un’autoambulanza  che si trovava nelle vicinanze, davanti all’hotel Venezia, e sulla quale caricavano la figlia di Bevilacqua che era stata colpita sulla fronte ed aveva perduto un occhio, fui portato presso il Convitto, dove c’era la Croce Rossa. Fui medicato assieme alla signorina Vella Gina  che era stata colpita al ventre ed aveva le budella fuori. I feriti non si potevano contare, ne portavano in continuazione. Io ero legato con lenzuola ed asciugamani, sentivo ma non vedevo e non potevo parlare; ero ferito pure al ginocchio, sentivo il medico, un capitano, colui che mi strappò tutto d’addosso, dire: “Quella ragazza che lei sta medicando è grave, ma questo, riferendosi a me, è più grave”, e quello: “Facciamo presto, diamo aiuto a quelli che hanno la speranza di sopravvivere, legalo com’era e mettilo da parte!”.
I feriti venivano portati a centinaia, anche i corridoi ne erano pieni. Io non avevo nessuno che potesse prendere la parola per me, mio padre non c’era, io volevo parlare, perché quelle parole erano per me delle pugnalate; mi prendono uno per le spalle e l’altro per i piedi, senza medicarmi.
Ricordo che mentre mi prendevano Dio mi diede la forza di balbettare qualche parola, volevo dire “sono vivo e voi mi dite che sono morto” e di nuovo sono svenuto; sono stato però medicato. Poiché lo svenimento durò a lungo pensarono che io fossi morto, e mi buttarono in mezzo ai morti, in un vano attiguo al portone d’ingresso del Convitto. Ero per terra, accanto a me c’era la signorina Vella, quando incominciai a vedere un poco; vidi uno che prendeva i morti e che per poco non mi calpestò. Con la destra riuscii a toccargli il polso del piede, costui allora mi prese per le spalle e cercò di alzarmi, mi sembrò  che volesse mettermi all’impiedi come per farmi  camminare, ma io non potevo reggermi. E siccome questi conosceva mio padre e tutti quelli che erano stati buttali lì, e che dovevano essere portati al Cimitero nella fossa comune con i carretti, mi prese e mi portò a casa, dove la mia famiglia mi piangeva ormai come morto. Costui si chiamava Sammartino Rosario.
Era l’11 luglio del 1943, la valanga di fuoco si precipitò ancora più furiosamente del giorno precedente; proiettili scoppiavano nella città, tremavano i muri, caddero calcinacci nella nostra casa, crollarono anche alcune case vicine alla nostra, i cannoni delle navi americane sembravano infuriati, i bersaglieri cercavano di nuovo di avanzare verso Gela, si diceva anzi che con i tedeschi erano alle porte della città.
Io intanto avevo bisogno di essere medicato, ma mio padre non sapeva come fare a causa di quell’inferno di fuoco che si era scatenato, e da un momento all’altro si poteva morire come lo furono i miei amici: la famiglia Missud,  Izzia Michele, Privato Vincenza e la signorina Vella.
Il fuoco aumentava sempre e il giorno 11 luglio, si sparava ormai vicino alla città, ma noi siamo riusciti a raggiungere la casa di mia zia nel rione Canalazzo, poi di nuovo al Convitto dove sono stato medicato dal dott. Mumoli.
Fui ancora osservato e medicato dal dott. Ventura, il quale si rivolse a mio padre con queste parole. “Giocolano, non credo che suo figlio se la salperà!”. Mi sono salvato. Dopo sei mesi di cura costosissima, mi sono rimesso, ma sono rimasto con delle limitazioni funzionali. Porto nel corpo delle schegge, una si trova nel ginocchio destro  dentro il canale midollare e porto sempre il petto coperto per non impressionare chi mi sta a guardare.

 

Pardo Carmela
Abela Filippa vedova Frazzetto

- Per le continue incursioni  aeree fummo costretti a sfollare in campagna, contrada Bocchiari, dove possedevamo un terreno con caseggiato a mezza costa. Eravamo tranquilli, non ci mancava niente e ci sentivamo al sicuro.
Ai primi di luglio nella nostra zona vennero dei militari tedeschi i quali scavarono delle trincee e piazzarono delle mitragliatrici. Il 9 luglio di pomeriggio facemmo del pane e per cuocerlo ci portammo verso un forno rustico distante da noi circa due chilometri.
Da quel momento incominciarono i nostri guai, il pane tardava a lievitare e si fece tardi. Nel cielo si vedevano come dei lampi, razzi luminosi provenivano dal mare, fasci di luce solcavano il cielo, l’asino non voleva camminare, cercammo di spingerlo con le mani ed a colpi di bastone, il cane che era pure con noi si mise a guaire, il buio si faceva più fitto, eravamo in apprensione. Durante la notte le incursioni aeree si fecero ininterrotte, il cielo sembrava pieno di stelle cadenti, bagliori e scoppi dappertutto, si sentivano le artiglierie contraerei del Campo di Aviazione di Ponte Olivo sparare senza soste, bruciava la campagna, pareva che l’inferno si fosse scatenato. Noi eravamo accovacciati sotto i tavoli e sotto i letti, pieni di paura, piangevamo e pregavamo.
Appena fatto giorno aprimmo la porta e guardando verso il mare ci impaurimmo tanto da non capire più niente. Non si vedeva niente, solo fumo, fumo nero, ed ancora sibili e scoppi continui causati dall’artiglierie che ci stordivano, il mare non si vedeva più.
Spinti, più che dalla curiosità, dalla necessità di sapere cosa stava accadendo attorno a noi, stropicciandoci gli occhi, abbiamo di nuovo guardato verso la fascia costiera. Il mare era pieno, pieno di navi, aeroplani e aeroplani nel cielo, lanciavano bombe, facevano evoluzioni, si abbassavano, mitragliavano; la nostra città era come avvolta da una nuvola, le navi continuavano a vomitare fuoco nella Piana.
Verso le cinque sempre della mattina del 10 sono passate delle camicie nere; questi militi si sono fermati e ci hanno chiesto un po’ di acqua, avevano i capelli irti come chiodi, le facce bianche come la cera, le divise lacerate, erano tutti scalcinati e mal ridotti, avevano la morte nel cuore e facevano pietà. Noi non abbiamo potuto fare molto per aiutarli e così essi si incamminarono verso Niscemi. Dopo un poco, sentimmo un fischio e vedemmo i tedeschi che con una camionetta ritiravano i loro camerati.
Intanto il terribile bombardamento continuava, era una cosa impressionante e che noi non possiamo dimenticare, durò tutto il giorno e tutta la notte successiva e poi ancora fino al giorno 14, vedemmo le cannonate partire dal mare e cadere nella zona del Castelluccio.
La mattina dell’11, verso le nove, sentimmo una improvvisa sparatoria..
Guardando dal “purteddu” della casa vedemmo un gruppo di carri armati tedeschi scendere dalla parte di Niscemi e sparando dirigersi verso la Piana del Signore. Ma, soprattutto dalla collina di fronte a noi, Da “u poiu larruni”, gli avversari iniziavano un violento fuoco con varie armi. La lotta durò circa quattro ore, abbiamo visto alcuni carri armati tedeschi spingersi in avanti nella pianura, sulla trazzera, ma due di questi carri furono colpiti di infilata a sinistra dall’alto e incendiati, allora gli altri si ritirarono.
Il martellamento navale continuò sulla Piana sempre in direzione del Castelluccio. Abbiamo visto anche cadere degli aeroplani, perché colpiti dalla contraerea delle navi, un apparecchio con il fumo alla coda, dopo aver fatto zig-zag sopra la città, è caduto sopra una nave facendola avvolgere dalle fiamme. I numerosi feriti furono trasportati in barella verso “u poiu Larruni”. Mio marito Vincenzo Frazzetto e mio cognato Pardo Carmelo si portarono quindi su un poggio accanto alla casa e col binocolo cercarono di osservare quel che accadeva nella contrada antistante. Un proiettile scoppiato a pochi passi li costrinse a rientrare precipitosamente. Rimasero miracolosamente illesi per la natura sabbiosa del terreno. La giornata era splendida, il caldo soofocante, e noi tremavamo, tremavamo perché avevamo tanta paura e sentivamo davvero freddo.
I militari nemici che stavano sul “poiu larruni” ci  vedevano, perché noi quantunque impauriti guardavamo incuriositi cose che mai avevamo visto.
Venne quindi da noi un militare americano con lo zaino sulle spalle e ci chiese dell’acqua, dopo essersi assicurato che non c’erano soldati nascosti. Io allora indicando la bambina, mia nipote, che per la pura non parlava, chiesi delle medicine. L’americano posò per terra lo zaino, l’aprì, prese della cioccolata e ce la diede. Era buona la cioccolata ed io la divoravo con gli occhi, ma mio marito non permise che la toccassimo, perché disse era avvelenata. Abbiamo fatto la prova col gatto dandogliene un pezzetto. Il gatto non volle mangiarla e noi ci convincemmo che era veramente avvelenata. Ma la cioccolata era troppo bella e noi avevamo l’acqualina in bocca, prendemmo un galletto, gli aprimmo la bocca e gliene facemmo ingoiare un pezzettino. L’indomani, visto che il gallo era vivo, abbiamo felicemente mangiato la cioccolata.
La campagna dove eravamo si rivelò pericolosa per noi invece di essere il punto più sicuro, perché per poco non ci rimettemmo la pelle.
Il bombardamento navale non cessò mai e vicino a noi avvennero combattimenti furiosi. Il giorno 14 con un carro agricolo di proprietà di don massa Emanuele Scicolone, nostro vicino di campagna, decidemmo di rientrare in città; avevamo fatto un po’ di strada, quando improvvisamente due aerei tedeschi si abbassarono in picchiata e ci mitragliarono, ma per fortuna non ci colpirono, anche perché ci buttammo sotto un ponticello.
Rientrammo in città e come Iddio volle sani e salvi.
Nessuno si vedeva, niente si sentiva; era impressionante attraversare una cittadina che sembrava un cimitero.
Vedemmo infine dei militari con le mitragliatrici piazzate. Erano stranieri. Passammo e non ci dissero nulla. Sapevamo poi che c’era il coprifuoco.

 

Salvatore Solito

A cose calme, era una bella domenica del nostro luglio assolato, mi decisi a far quattro passi nelle vicinanze di casa, per vedere da lontano il mare, che, nella stupenda stagione, quando il vento di ponente non lo tinge di verde e non lo schiuma di maretta, è di un incredibile azzurro e lucido come di raso.
Tenevo in braccio la mia bimbetta di pochi mesi ed a lenti passi mi avvicinai alla sommità della scalinata, che dalla via Graticola porta alla spiaggia.
Sul pianerottolo c’era di guardia un marine. Era imponente! Blindato dall’elmetto che gli nascondeva il viso, ed, abborracciato nella tuta, rigonfio di tasche, di bombe e pistola appariva ancora più arcigno e nel contempo truce ed inabbordabile. Non osai avvicinarmi a lui anche perché il suo aspetto mi faceva temere qualche brusca reazione. Rimasi perciò a dovuta distanza, osservando da lontano le dune di sabbia che gli spalatori rivoltavano per disseppellire i numerosi morti, e comporli nelle bare.
Intanto additavo alla mia piccola, come se mi capisse, l’esaltante spettacolo del sole e dell’azzurro e spiavo l’orizzonte, che verso Licata svaniva nella foschia.
Mentre contemplavo la vasta distesa del mare del tutto disseminata di navi da guerra, fui scosso da una voce: era il marine che mi si era accostato mormorando un sommesso “pardon”. In quel momento mi accorsi che il suo volto, apparentemente truce, esprimeva bontà e tenerezza tanto che appariva rigato di lacrime.
Il marine sfilò il guanto della mano destra e mi chiese il permesso di potere accarezzare la piccola. Volentieri lo accontentai e lui timidamente, con la punte dell’indice, ne sfiorò il visetto. Mi chiese quindi se poteva tenerla in braccio ed io gliela porsi, con fiducia, anche perché la bambina non piangeva ed era disposta a lasciarsi coccolare. Poi me la ridiede, proprio con la stessa tenerezza di un buon papà. Stette qualche attimo in silenzio, e, preso da un’insolita commozione, versò abbondanti lacrime. Ripresosi dalla commozione, volle presentarsi come se tenesse ad intrecciare cordiali rapporti di amicizia con me. Mi disse che era di Boston; lavorava in un cappellificio e da un anno mancava da casa, dove aveva lasciato due bambini e la moglie incinta. Aggiunse che gli era nata in seguito, dopo la sua partenza, una femminuccia che lui non conosceva e che aveva all’incirca la stessa età della mia bambina, nella quale immaginava di riconoscere le stesse sembianze.
E’ superfluo dire che l’ineffabile poesia del focolare ed il luminoso azzurro di quella serena mattinata di luglio, valsero a stabilire tra me e quel singolare robot in lacrime, un rapporto di umana fratellanza al di sopra di ogni divisione politica.
Fraternizzammo, con il cuore semplice di chi crede a certi intramontabili valori sociali. Ma dovevamo congedarci subito, con l’augurio però di poterci ancora incontrare dove e chissà quando, nella speranza di un futuro fecondo di fraternità e di pace.