Chiesetta di San Biagio
Rudere d’antica memoria, vestigio scampato per magheria ai colpi inesorabili del tempo, relitto sopravvissuto alla corrosiva brezza che spira corsara dal mare d’Africa a smussare, sgretolare, sfaldare, corrompere: è ancora lì, la vecchia chiesetta di San Biagio, a testimoniare col suo muro obliquo la tempra granitica delle sue fragili ossatura d’arenaria minuta ed informe con cui ha osato sfidare, vittoriosa, le sferzate orbe dei secoli e degli uomini.
Che mistero s’annida nel pietrame delle sue pareti? Quale forza occulta s’aggruma nelle viscere delle sue fondamenta? Quale sibilla ha steso attorno ad essa l’arcano velo della leggenda? O forse San Biagio, il medico vescovo e martire protettore dei malati di gola, dai cardatori e delle fanciulle in cerca di marito, ha voluto preservare questo suo tempietto di neppure centometriquadri, proteggendolo per secoli, malgrado le ingiurie degli uomini che l’hanno adibito via via agli usi diversi e più strani.
La chiesetta di San Biagio, dunque, a Gela. Si favoleggia sulle sue origini. Si raccontano storie, si tramandano leggende.
Uno l’ha voluto far nascere in epoca bizantina, prima che l’827 vedesse i cavalli saraceni abbeverarsi ai pozzi siciliani e correre in lungo e in largo l’isola per le antiche trazzere greche e romane. Un altro ha voluto che fosse moschea araba durante la dominazione aghlabita, col muezzin arrampicato su quell’abbozzo di campanile a spargere per i campi geloi la sua sonnolenta e lamentosa preghiera. Un altro ancora ha creduto di scorgervi elementi di una non probabile fondazione altavilliana, avvenuta molto prima che Butera e Noto, ultime roccaforti arabe, nel 1091 cedessero ai biondi Normanni la terra, il cielo, il mare di Sicilia, ma non il cuore.
Ma la leggenda più bella ha preso spunto da una misteriosa data, il 1099, composta da pietruzze su una mattonella di cotto che fino a non molto tempo fa era visibile in cima alla porta Sud.
Quell’anno pare che i Musulmani abbiano tentato di riconquistare l’isola perduta nella quale, a leggere Ibn Hamdis, avevano lasciato la memoria e l’anima.
Dove sbarcare la rinnovata forza della mezzaluna se non sulla spiaggia di Gela, da sempre e per sempre luogo ideale di sbarco e d’invasione? Così, una serena notte di primavera siciliana, il firmamento si specchiò nei lucidi metalli saraceni tornati dopo otto anni in queste coste; e all’alba, quando i primi cenerini chiarori fecero luccicare il dorso ai cefali guizzanti nelle acque placide del fiume Maroglio, il presidio normanno, esterrefatto ed incredulo, si ritenne perduto. Fumate di fieno umido rapidamente furono alzate a dare l’allarme, mentre si tentavano i primi assalti sulla collina dove giacevano sepolte le reliquie dell’antica colonia greca.
Chi o casa avrebbe potuto fermare il mulinello di lame ricurve agitate da braccia di forza selvatica e rabbiosa? Chi avrebbe potuto resistere all’urto e all’impeto di quegli uomini da anni col petto colmo di rancore e nostalgia?
Ben presto la strage fu consumata. Molte teste normanne vennero allineate lungo i muri della chiesetta di San Biagio, dove gli ultimi soldati avevano trovato rifugio.
Ma i segnali di fumo erano stati scorti. Da Butera venne giù l’esercito dei Normanni al comando del conte Enrico. La battaglia si accese furibonda: Cristiani e Musulmani facevano a gara a superarsi in perizia e valore. Per lungo tempo nessuna delle due parti riuscì ad avere il sopravvento: le sorti rimanevano incerte. Poi, d’improvviso, al tramonto, un intenso fulgore rossastro si concentrò sopra la cavalleria cristiana, come se il disco del sole, invece di sperdersi oltre la chiostra dei monti, fosse scivolato per fermarsi lì a mezz’aria: in esso prese forma un biondo angelo armato il quale gridava: “Mi-cha-el?, Mi-cha-el?”.
Era l’arcangelo Michele, il cui nome vuol dire “Chi più grande di Dio?” o “Chi contro Dio?”, venuto a soccorrere e a piegare le sorti della battaglia. Con simile condottiero i Cristiani riuscirono facilmente a travolgere e sterminare i Musulmani atterriti e i pochi superstiti che riuscirono a guadagnare le navi, giurarono sul profeta Maometto che se fossero giunti vivi sulle coste africane, mai più armata araba avrebbe messo piede sull’isola, ormai perduta irrimediabilmente.
Il 1099. Un mattone di terra rossa. Ricordo della vittoria cristiana sui Musulmani o anno di costruzione? O che altro? Che strano segreto nasconde questo numero, che cabala? E come mai pietra concia di Comiso nei portali, così diversa dal corpo materiale della fabbrica? E le ossa umane trovate nella fossa scoperta davanti l’abside?
Comunque sia, è probabile che quando l’imperatore Federico II, tra il 1230 e il 1233 venne a cingere di mura poderose la terra desolata dove diciassette secoli prima aveva passeggiato il poeta tragico Eschilo rimanendovi ucciso per sfondamento del cranio, il tempietto esistesse già e vivesse una sua vita. Altrimenti una volta fondata Terranova, che senso avrebbe avuto costruire fuori del castrum, ma a ridosso, una così povera, minuscola chiesa, aperta alle insidia di qualunque malfattore? Ma c’è anche, bisogna dirlo, chi sostiene di poterne datare la nascita alla fine del secolo XIII.
Null’altro sappiamo delle fortunose vicende e delle traversie dei secoli successivi, come se una nuvola di cenere vesuviana avesse avvolto l’edificio nel suo mantello grigio per nasconderlo all’occhio del tempo.
Nel 1899 la chiesetta divenne proprietà del comune di Terranova di Sicilia, e ancora fino al 1910 gli incensi bruciati nei turiboli alzavano alle capriate fili di fumo odoroso e molti ceri si consumavano ai piedi della statua lignea del santo.
Poi il declino. Chiusa al culto, la chiesetta divenne magazzino e deposito di merci varie, obitorio comunale, lavanderia dell’attiguo Ospizio dei Poveri e luogo di traffici notturni nei giorni dell’invasione angloamericana. Per anni è stata abbandonata, trascurata, dimenticata, come se San Biagio, per oltraggio subito, avesse decretato di farne una rovina, un ricordo.
Ma ora che essa risorge nel suo splendore primitivo, a testimonianza del nostro grado di civiltà, San Biagio protettore certamente farà brillare la speranza nei lampi degli occhi, negli sguardi obliqui delle ragazze gelesi che verranno nella sua chiesetta non più per riti liturgici, ma per ascoltare un concerto, per ammirare una mostra o per sentire magari una noiosa conferenza.
Fonte: Enzo Papa