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Antonino Nocera

 

Il Gran Croce Antonino Nocera

Maestro di se stesso

Il 24 maggio del 1930 moriva, all’età di 80 anni, il cav. Di Gran Croce della Corona d’Italia, gr. uff. comm. Antonino Nocera, uno dei nostri concittadini più importanti degli ultimi cento anni e, sicuramente, uno dei pochi di cui oggi, a distanza di oltre mezzo secolo dalla sua scomparsa, si riesce ad avere qualche testimonianza verbale grazie al ricordo dei suoi contemporanei ancora viventi.
Chi era questo personaggio che viene ricordato da alcuni come un ricchissimo possidente e uomo potente e da altri come un grande benefattore? Chi era in verità Antonino Nocera? Un agrario che, sfruttando i poveri contadini, aveva costruito sulla loro pelle un’immensa fortuna oppure un facoltoso gelese ispirato a principi di cristiana carità?
Forse ripercorrere un po’, anche se superficialmente per carenze di fonti biografiche, la sua vita ci può facilitare il tentativo di capire che era realmente quest’uomo che, per un cinquantennio, rappresentò un punto di riferimento per la vita economica e sociale di Gela, e non solo di Gela.
Antonino Nocera nacque a Gela il 20 agosto del 1850 da una famiglia benestante. Il padre, di nome Giovanni, “galantuomo de lo stampo antico”, era commerciante, industriale e agricoltore; per il grande impulso dato alla coltivazione del cotone nella nostra piana ricevette dal Ministro dell’Agricoltura dell’epoca una medaglia di bronzo. Indirizzato agli studi, com’era d’usanza fra le famiglie agiate, Antonino Nocera conseguì la licenza nella Scuola Tecnica e per continuare gli studi universitari, si trasferì poi a Napoli, dove, però, rimase solo due anni, a causa della salute cagionevole del padre. Così ritornò a Gela e, benché ancor giovane e senza nessuna esperienza, dovette da solo mandare avanti l’azienda del padre. Furono tempi duri per il nostro concittadino, ma grazie al suo impegno, alla sua passione e, soprattutto, alla sua viva intelligenza, riuscì tra mille difficoltà a rimettere in sesto l’azienda agricola, e, in pochi anni, addirittura ad ampliarla. Egli fu veramente il più grande maestro di se stesso grazie all’esperienza, alla sofferenza ed alla dedizione al dovere. Antonino Nocera, si può affermare, fu un vero autodidatta, “il maestro di se stesso”.
Nel 1876 entrò a far parte dell’élite della società gelese, grazie al matrimonio contratto con una nobile e ricca donna, Clorinda Aliotta Mallia.
Due anni dopo, animato da “un sentimento alto di Patria”, il Nocera partecipò alla vita pubblica. Eletto consigliere comunale per “volontà del popolo” vi rimase senza interruzione fino al 1904. Fu sindaco di Gela per molti anni, prima nel 1883 e poi dal 1896 al 1898, e ancora dal 1899 al 1914, e fu componente della Deputazione provinciale, poi presidente della stessa e del Consiglio provinciale. Fece parte di vari organismi, ma la carica più importante tra essi fu quella di rappresentante della provincia nel consiglio generale di amministrazione del Banco di Sicilia.
“…Sempre e dovunque ebbe campo di dimostrare la sensibilità squisita dell’animo generoso, mai sordo ai bisogni dei sofferenti…”, e quando nelle nostre campagne imperversavano rigide condizioni climatiche e la pioggia allagava tutto, per cui era impossibile a molti contadini e braccianti la ripresa del lavoro, il Nocera era solito aprire i suoi magazzini per distribuire alle famiglie disagiate generi di prima necessità. In particolare “istituì” i cosiddetti “quararuna”, grandi pentole in cui venivano cotti 100 Kg. di pasta (“italeddu”) e 100 Kg. di legumi, in alcuni quartieri della città per la distribuzione quotidiana e gratuita di pasti. I “quararuna” erano in funzione dalle 11 alle 16 ed erano ubicati nelle piazze di S. Agostino, oggi piazza Salandra, santa Maria di Gesù e S. Francesco.
Durante la prima guerra mondiale anche lui “…si trova al suo posto di combattimento. Le porte della casa sua sono aperte in ogni ora del giorno; egli è segretario de le famiglie, egli consiglia, egli incoraggia, egli lenisce mille dolori, egli diviene il conforto de le madri e le spose, il padre dei soldati…”.
Nel 1925 contribuì con la somma di 100 mila lire, equivalente grosso modo ad alcune centinaia di milioni di oggi, alla sottoscrizione nazionale per l’estinzione del debito italiano verso gli Stati Uniti d’America. L’anno dopo elargì, oltre 150 mila lire all’ospedale di Gela per l’istituzione di un tubercolosario e, ancora, 50 mila lire alla Congregazione di Carità per dotare di locali più ampi il nostro orfanotrofio Regina Margherita per ammettervi un numero maggiore di orfanelle. Tali enormi elargizioni ebbero vasta eco su tutta la stampa nazionale; il popolo di Roma, ad esempio così scrisse: “…La magnificenza del gesto esemplare è superiore a qualsiasi elogio, e mentre la riconoscenza e l’affetto di tutta la cittadinanza esaltano entusiasticamente le virtù del grande benefattore, noi, vivamente commossi, sentiamo il dovere di additarlo all’ammirazione degli italiani.”, mentre sulle colonne del Giornale di Sicilia si lesse: “…Il Gr. Uff. Antonino Nocera che fu, crediamo, il solo che, come persona, per il dollaro sottoscrisse centomila lire,…”.
Ma il maggior riconoscimento Antonino Nocera lo ricevette il 29 marzo del 1926 dal Governo italiano su deliberazione del Consiglio dei Ministri, fu il titolo di Cavaliere di Gran Croce della Corona d’Italia, il grado più eminente degli ordini cavallereschi, istituito da re Vittorio Emanuele II nel 1868, con la seguente motivazione. “…in riconoscimento delle sue alte benemerenze civili e dell’opera illuminata svolta per lunghi anni per l’interesse dell’amministrazione pubblica”. Anche la notizia di quel titolo cavalleresco fu riportata da tutta la stampa, compreso l’autorevole quotidiano milanese  Il Corriere della sera, il giornale L’eco d’Italia così scrisse: “…L’altissima onorificenza è venuta a riconoscere e premiare ancora una volta le tantissime benemerenze di una delle più note e cospicue personalità del grande mondo siciliano”.
L’altra faccia della medaglia ci dice che il Nocera prestava del denaro  ed era esigentissimo nel ricevere i pagamenti dovuti a tali prestiti, tanto che non si faceva scrupolo di confiscare i beni dei creditori.
Anche con i prestatori d’opera non che sia stato tanto tenero , esigeva prestazioni d’opera per una paga di fame.
E non ammetteva concorrenza alcuna , fece scappare da Gela una ditta tessile settentrionale che voleva lavorare il cotone prodotto dalla nostra piana, e ciò sarebbe significato paga e orario di lavoro come da contratto nazionale. Il Nocera, per profitto e per potere,  adducendo motivi di ruberia del nostro prodotto fece sollevare ad arte una grandissima protesta che poi sfociò in disordini gravissimi tanto che vi furono dei morti, la ditta tessile a questo punto rinunciò al suo progetto..
A nostro modo di vedere, Antonino Nocera fu un sfruttatore, come altri agrari, della nostra povera gente, un continuatore del secolare latifondismo siciliano, però, a differenza degli altri agrari gelesi, si distinse per intelligenza e furbizia. Da una parte “succhiava il sangue” ai lavoratori della terra, dall’altro porgeva un piatto di minestra e qualche soldo nel momento in cui gli stessi morivano di fame, e questo subdolo e sottile gioco durò tanti anni
L’esperienza quotidiana ci insegna che quanto più si accumulano quattrini tanto più si diventa tirchi. E allora possiamo tranquillamente ipotizzare che il Nocera, arrivato a tarda età, e sentendosi prossimo a concludere la sua vita, si sia convinto della futilità di quell’enorme ricchezza accumulata in tanti anni – futilità evidenziata maggiormente dalla morte immatura della figlia Rosalia a motivo di una inguaribile malattia: a soli 43 anni. Del resto il modo migliore di far fruttare i quattrini o, come si usa dire, di farli “rendere” anche dopo la sua morte, poteva essere, per esempio, quello di elargirli in beneficenza, il che, certamente, avrebbe tramandato ai posteri il suo nome e la sua fama.
E se questo si era prefissato di raggiungere, possiamo tranquillamente dire che ci è riuscito perfettamente.
Quanti altri nostri concittadini benestanti, anzi ricchi sfondati, per una vita di latrocinio e sfruttamento, sono deceduti da allora senza che nessuno abbia seguito l’esempio del Nocera. Chi si ricorderà più di loro? E allora “salga” il Gran Croce e si ricordi il nome, perché possa servire a mo’ di esempio a “…quanti fuor gurci/sin de la mente in la vita primaria,/che con misura nullo spendio ferci…” (dante – Inferno, canto VII, 42ma terzina)

Fonte: Nuccio Mulè