La dote
“Nuttata persa e figghia fimmina” è una frase ancora oggi che a Gela si dice per dire di una fatica non solo inutile, ma gravosa.
Infatti un tempo (e forse ancora oggi) la nascita di una bambina era ritenuta non certo felice per una famiglia, anche la più ricca, sia perché “a fimmina si po’ perdiri e purtari viriogna” sia per la dote.
“A figghia in fasci e a doti 'na cascia”, così si ripeteva un tempo, perché, in questo paese le ragazze, tranne la casa, per sposarsi dovevano portare tutto; così capitava che giovani dei paesi vicini venivano a sposarsi qui proprio per questa “brutta consuetudine”.
Nelle famiglie povere la nascita di una figlia era in genere considerata una “disgrazia”, e siccome Gela è stranamente la città, in cui i maschi sono in prevalenza, si riteneva qualche decennio fa, da qualche studioso che in verità ciò fosse dovuto al fatto che, nei primi anni di vita, fossero curati più i maschi che le femmine.
Le comari, quando nasceva una figlia in una famiglia ricca o povera che fosse, cominciavano a dire alla madre di pensare al corredo, e il povero padre, contadino o pescatore, che magari non aveva di che tirare avanti, doveva, mettere da parte i soldi, mangiando pane e cipolla, per il corredo nuziale della figlia, che ancora stentava a camminare.
Se la madre sapeva cucire, cominciava a fare le camicie, che potevano essere di sei o dodici o diciotto o ventiquattro, a seconda del ceto a cui apparteneva: ciò valeva per tutti gli altri capi di biancheria.
In genere le camicie, nel ceto medio, erano dodici di giorno e dodici di notte, di cotone bianco con le bretelle e con dei ricami talvolta traforati quelle di giorno, lunghe con molti ricami e con le maniche pure lunghe, sia che servissero per l’estate o per l’inverno, quelle di notte.
Poi c’erano le sottane (vunneddi) sempre bianche di cotone, che erano appaiate alle camicie da giorno, che man mano si accorciavano, visto che la moda imponeva vestiti più corti.
Oltre alle sottane bianche c’erano quelle “in colore”, ornate da fiorellini e merletti, sia di sopra che di sotto.
Le mutande bianche ricamate, che prima erano lunghe e che poi si accorciarono, si portavano ugualmente a sei, a dodici, a diciotto o a ventiquattro, appaiate e “pittera” cioè a grandi reggiseno che erano aperti sul davanti, anch’essi bianchi e molto ricamati ed ornati.
Le ragazze, in genere, imparavano l’arte del cucito e del ricamo e passavano anni ed anni a ricamare detti indumenti, nonché le lenzuola e le tovaglie da tavola.
Infatti, bisognava anche che la donna portasse come minimo otto paia di lenzuola di cotone, di lino più o meno raffinate, ma tutte ugualmente ricamate, con splendidi cuscini e poi “portacamicie” da notte e tovaglie da tavolo con tovaglioli bianchi e colorati, da servire per altre due generazioni, dato che, spesso, non sarebbero mai stati adoperati, perché troppo impegnativi per gli usi di tutti i giorni.
Anche le coperte dovevano essere di diverso tipo, da quella da ciniglia a quella di pura lana, a quella di seta e quell’altra in pittura, quando non arrivava nei ceti più abbienti a quelle ricamate al tombolo o in pizzo di “cantù”, o ai ricami del ‘500 o ‘400, coordinati con le tovaglie da tavola.
Anche gli asciugamani andavano a sei, dodici, diciotto o ventiquattro, di cotone, di lino ricamati, di spugna, ecc…
Tagliando, cucendo e ricamando, spesso andavano dalle suore di Sant’Anna all’Educatorio d’orfane Regina Margherita, le bambine, poi ragazze e poi giovinette, se certamente di famiglie agiate, passavano la loro giovinezza, per un corredo che, se rimaste nubili, non sarebbe servito.
Per quando riguarda i vestiti, bisognava far “comparire” le ragazze e anche le famiglie meno abbienti, nelle feste facevano confezionare dalle sarte (se le ragazze non erano esse stesse sarte) dei vestiti che, in genere, rispecchiavano l’ambiente in cui essi vivevano.
Fidanzate, avrebbero dovuto farsi o farsi fare l’abito bianco con il velo, per il giorno del matrimonio; se però “si ni fuivinu”, siccome il matrimonio veniva celebrato” il mattino presto, senza pompa e alla sola presenza dei testimoni, in sacrestia prima, col passare del tempo in chiesa, senza illuminazione, dato che “i fuiuti” erano in peccato, la sposa non poteva indossare l’abito bianco, e quindi la famiglia della sposa “risparmiava”.
La sposa bisognava, però, prima delle nozze, che si facesse l’abito degli “otto giorni”, cioè da indossare la prima volta che si recasse a passeggio o andasse in chiesa, per ascoltare la messa, dopo otto giorni dalle nozze, che in genere erano celebrate il sabato antecedente.
Detto abito era nero o blu, perché la donna era ormai sposata e si addicevano detti colori oscuri; in genere, se era inverno, doveva portarsi come dote il cappotto o soprabito nero, che le sarebbe servito anche in altre occasioni, ciò dopo l’abolizione dell’uso dello scialle nero, che veniva dotato in duplice versione: invernale di lana ed estivo in cotone, elegante, con frange e ricami per le occasioni, semplice per tutti i giorni.
Il cappello, con veletta, nelle classi più elevate, completava la toeletta della sposina. Era necessario che sfoggiasse anche monili d’oro dati in dote dalla sua famiglia.
L’uomo, invece, portava un corredo più semplice, fatto di sei, dodici, diciotto o ventiquattro mutandoni bianchi di tela, camicie di altrettanto numero, di alcuni vestiti, soprattutto quello nero, che gli serviva per la cerimonia nuziale e per le altre occasioni importanti della sua vita e, in ultimo, nel giorno della sua scomparsa; solo se aveva la casa doveva portarla in dote, anche perché la casa per eredità toccava al maschio; se, invece, era di modeste condizioni, la doveva affittare.
Nel ceto dei “massari” portava il mulo o il somaro con il carretto; nel ceto marinaro possibilmente la barca o gli arnesi da pesca.
Null’altro portava, perché i mobili, tutti, sia nel ceto elevato che negli altri, toccavano alla sposa; di qui l’indebitamento di diversi padri di spose che, mettevano da parte dei quattrini a costo di grandi fatiche per fare, oltre al corredo, i mobile delle figlie, e siccome allora era normale avere una famiglia numerosa era da compiangere un padre che avesse avuto più figlie.
Nel ceto modesto, il padre della sposa, comprava la sola camera da letto accompagnata da un tavolo da pranzo e una credenza, dove venivano messe le suppellettili da cucina più necessarie, acquistate sempre dalla famiglia della sposa quali pentole, piatti, bicchier, ecc…
Nelle famiglie agiate la sposa “portava” la camera da letto, la stanza da pranzo, il salotto; in genere, dei vari gioielli d’artigianato locale.
Fonte: Rosa Maganuco
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