La mietitura
Fino ad una quarantina di anni fa la mietitura del grano, come dei legumi, soprattutto delle fave, della veccia e dei piselli avveniva manualmente.
Nel mese di giugno i mietitori del grano duro (poiché a Gela in genere si coltivava e si coltiva il grano duro che serviva a fare un buon pane, oltre la pasta), mietevano il grano impugnando la falce con la destra, mentre con la sinistra, con le dita ricoperte di ditali fatti con le canne, raccoglievano i mazzi di spighe.
Una volta fatti, i mazzi venivano deposti a terra e “u cugghituri” (il raccoglitore), con un arnese detto “ancinu” e con il “croccu” (gangio) facevano le “regne”, cioè i covoni legandoli con le “liani”.
Otto mietitori facevano un squadra, che lavorava dall’alba al tramonto e, per sopportare il duro lavoro, spesso si beveva il vino “u santissimu sacramentu” e si cantavano canti religiosi o rispetti o dispetti amorosi.
Spesso cantavano
Madonna, quantu è javitu lu suli,
Sant’Aita facitilu cuddari
è dill’arba chi sugnu a buccuni
li rini si li mangiare li cani
e rivolti al padrone.
E ppi passari stu duluri e rini
ci vulissi un chilu di costi di maiali!
Dopo aver fatto stagionare il grano almeno una settimana, avveniva “u carruzziari”, cioè il trasporto dei covoni in un punto del terreno, e ciò veniva fatto con i carri tirati dai muli a cui erano legati “i canceddi”, arnesi di ferro; così si facevano le “murate” (ammassi di covoni): si chiamavano “tumugni” se venivano fatte con i “mazzuni”, quando si cominciarono ad adoperare le macchine per mietere.
Durante la mietitura, a Gela venivano dalla “montagna” i “meticaliddi” (cioè i mietitori che provenivano dall’agrigentino, soprattutto dai paesini dove la mietitura si fa tardi rispetto alla “marina”, chiamati caliddi da Calogero, nome frequente in quelle zone perché il protettore è San Calogero).
Essi venivano presi in giro con questa filastrocca.
“Meti caliddu, meti
meti cco faucidduni ( con la grande falce)
cascavaddu e ciciruni” (si davano il caciocavallo e i ceci come pasto da parte del padrone)
Quando i mietitori smettevano di mietere al calar del sole cantavano
“Ora nun metu cchiù e mi nni vaiu
quantu vaiu e viru lu curuzzu miu (la moglie)
Fonte: Rosa Maganuco