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Usi e costumi

 
Aratura del terreno
 

Tradizioni

Con la scoperta del petrolio, la vita degli abitanti di Gela cambiò; siamo alla fine degli anni 50.
Fino ad allora, Gela era un paese agricolo e marinaro con un certo fiorente artigianato, che lavorava la palma nana (u scupazzu) nei magazzini prossimi al mare, l’argilla per fare soprattutto le tegole, le “quartare” e i “bummili”, sempre in detta zona c’erano i “vuttara” per fare le botti di legno per il vino, i ferraioli, per lavorare abilmente il ferro; i sarti, i calzolai, i calafati, gli stagnini, ecc…, i “pastara”, i carradori, i falegnami, i “mulinara”, i “issara”.
Ma la maggior parte della popolazione era dedita all’agricoltura, che si effettuava con mezzi tradizionali, anche se cominciavano a comparire le prime auto.
Il massaro, cioè il contadino proprietario dei terreni alla cui coltivazione provvedeva egli stesso, spesso, con l’aiuto di giornalieri di campagna, seminava i terreni siti soprattutto nella fertile piana di Gela, nei mesi di ottobre e novembre, dopo che erano stati lavorati con aratri a chiodo tirati da muli o cavalli.
Anche la semina del grano, dell’orzo o delle fave in genere era fatta a solchi, tracciati dai sopradetti aratri, a filare oppure, a spaglio.
Come concime si usava quello stallatico, concime organico molto efficace e che si trovava anche con una certa facilità, dal momento che allora si usavano come mezzi di trasporto e da lavoro cavalli e muli.
Talvolta, quando pioveva molto, soprattutto nella contrada Margi, bisognava riseminare, perché i semi morivano per asfissia e quindi non germogliavano.
I frumenti duri caratteristici dell’epoca erano il “bivi”, la “maiorca” e il “garigliano” e, nel caso che si seminava tardi , la “timilia”; nei frutteti e nei vigneti si procedeva alla potatura.
I contadini erano restii a buttare troppo sementi nei terreni, poiché esso si levava dalle provviste che essi avevano fatto per l’inverno e che tenevano dentro le cosiddette “fosse” (granai).
Anche la zappatura avveniva a mano, e per il frumento avveniva un paio di volte, mentre nel mese di maggio si procedeva a levare le altre erbe infestanti come ad esempio la “ramigna”. Tutto avveniva  all’insegna del risparmio perché, specie se il contadino aveva delle figlie femmine, doveva risparmiare per fare loro la dote.
Allora circolava un proverbio, anche se non era applicato: “Pigghila bedda, pigghila cùcu nenti, e no laria ccu robba e dinari. La robba si nnì va comu lu ventu, la laria e brutta ti resta davanti”.

Fonte: Rosa Maganuco